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Infame: è il poco che mi viene in mente per cominciare a descrivere questa realtà. Va vissuta con i propri occhi per capire. Capire in che razza di mondo sono costretti a vivere.

Capire perché la vita è stata tanto crudele con loro. Capire perché un musungu deve arrivare fin qui, qui in basso, qui in fondo, per poter ritrovare l’immensità di se stesso. Per ritrovare quella semplice e nuda verità di te stesso che ti aiuta ad abbandonare il superfluo. A lasciare tutto ciò che nel mio malato e viziato mondo do per scontato e dovuto.

Forse è riduttivo paragonare realtà diverse che non hanno quasi nulla in comune, ma qui mi sto ponendo molte domande e trovando, purtroppo, poche risposte.

Potrei dire che quello che sto vedendo e vivendo in questi giorni è soprattutto colpa nostra, del nostro mondo moderno e sviluppato che a parole non vuole assolutamente che questi bambini vivano nella spazzatura, nella merda, che nei suoi principi vorrebbe un mondo senza bambini affamati, ammalati… Potrei dire tutto questo. Quello che so è che questi bambini, anche se non gliel’ha insegnato mai nessuno, dentro sanno che la vita è un dono meraviglioso.

IMG-20160103-WA0001Lo si capisce da quei teneri faccini dipinti da bianchissimi sorrisi.

L’ho capito oggi, davanti la scuola di St. Martin, dove una dolcissima bambina appena ha visto 30 wazungu ha cominciato a correre, cadendo su un misto di fango e sassi; non un lamento, non un grido, neanche una sola lacrima ma solo tanta voglia di rialzarsi per partecipare al divertimento e cercare un po’ di quelle coccole che a lei e a tanti altri bimbi sono proibite, dimenticate, sfiorate.

Me l’ha fatto capire, con forza, Alvin, 10 anni, sporco, vestiti strappati e ricuciti poco e malamente. E’ stato abbandonato dalla madre fuggita con un altro uomo. Ora una nuova “madre” dello slum prova a prendersi cura di lui. Ci prova perché deve badare anche ai suoi, di figli, non riuscendo sempre a dare da mangiare a tutti. Alvin mi confessa che mangia due giorni si e uno no. Ieri ha ricevuto una banana: era un giorno SI. Poi ha raccolto le bucce di banana e ha cercato qualche foglia di Avogado da mettere sopra il terreno duro e roccioso dove dorme. Una delle poche felicità della sua vita era andare a scuola ma da quando sua madre lo ha abbandonato non ci sono abbastanza soldi per continuare a studiare: qui la scuola se la possono permettere in pochi. E quei 3,50 euro, una nostra colazione al bar, sono il prezzo che la nuova mamma di Alvin non si può permettere per pagare un trimestre intero. L’abbiamo presentato ai social workers della parrocchia e forse un briciolo di speranza è ritornata nella sua vita.

Questa è una vita dove correre, non lo si fa per divertimento, dove dormire, non lo si fa per riposare, dove giocare, non lo si fa e basta. E’ una vita dove, se ti capita di nascere con handicap, hai l’unica possibilità di sopravvivere nell’aiuto costante e incessante delle Sisters of Charity (Le suore di Madre Teresa). Ma una vita dove non so come e se posso scovare, nonostante tutto, un po’ di felicità.

Queste sono le storie incontrate in questa prima settimana, che possono sembrare surreali; la cosa più crudele è che sono la “normale” quotidianità che può e deve cambiare: non se la meritano. Non la merita nessuno.

E allora ecco le domande, alcune, che mi girano per la testa:

  • Com’è possibile che una grande ditta straniera possa comprarsi tutta la terra costringendo milioni di persone a trasferirsi nei pochi spazi dove è permesso loro vivere senza sentirsi ospiti in casa d’altri?
  • Com’è possibile che un governo corrotto permetta che ci sia un divario sociale così grande e a così poca distanza costringendo la gente a vivere una non vita?
  • Come può accadere che a Korogocho chi ha meno del niente è costretto a scavare la propria casa nella discarica dove prova a sopravvivere e che è anche una ferita profonda nel magnifico paese in cui vivono?
  • Come mai non c’è una rivolta nei confronti del governo da parte di tutta questa gente? Come può accettare di vivere così senza ribellarsi a chi li ha messi in condizione di non vivere ma di sopravvivere?
  • Come posso permettermi di dimenticarmi di tutto questo?

Chi ha permesso questo non resisterebbe un giorno qui. Chi ha voluto tutto ciò, non ha idea di quello che queste persone, vere, concrete, non numeri, devono affrontare.

Questo mondo infame, che ha fame di vita e di giustizia, che è incapace di gridare il suo disprezzo è un mondo che non si arrende. Un mondo che forse sta perdendo la speranza.

Io provo a non arrendermi. Io provo ad avere un po’ di speranza.

Andrea P.

“Spero che un giorno esista una collaborazione tra questi giovani ed i nostri giovani, e che crescendo insieme, si possa raggiungere un risultato di eguaglianza ed amore reciproco”

Queste le parole di sister Mary oggi durante la messa a Kariobangi. Non so che pensare. Condivido le mie riflessioni per capire meglio ciò che succede, non qui, non oggi, ma nel mondo. Sempre più assiduamente mi chiedo quale sia la direzione che abbiamo preso…

È domenica, giorno della messa a Kariobangi, la sveglia è presto (come sempre), dobbiamo attraversare la città. Alle 11 mi si spalanca davanti agli occhi l’immensità di una chiesa strapiena di persone, unici bianchi noi. È molto difficile descrivere una chiesa strapiena di persone, quasi non ne vedi il fondo. Uno spazio immenso, addobbato a festa come se fosse sempre domenica: una metà è riempita da persone vestite a festa, l’altra metà, persone che indossano delle tuniche color sabbia che cantano i gospel… Sembra per qualche attimo di dimenticare lo schifo che vediamo quotidianamente.
È tutto diverso, i tamburi di sottofondo, le mani che battono ad un ritmo diverso, un ritmo di sole, un ritmo di vita.
dandoraLa lingua diversa non ci dissuade dall’ascoltare le parole pronunciate da padre Felipe, si capisce tutto. Padre Massimo, che ci ha accompagnati fino a questo punto, ci saluta domattina, al suo posto è arrivato padre Vitangelo, entrambi si sono uniti a padre Felipe per celebrare questa messa che non ha niente a che vedere con le messe tradizionali. Siamo tanti, ma non ci sentiamo diversi, ‘tuko pamoja’ dico io.
Il pranzo nel dispensario della parrocchia, è stato solo una piccola parentesi in una giornata vissuta freneticamente tra mani strette e bambini che appena potevano ci prendevano e camminavano con noi.
La visita a Korogocho è stata faticosa per tutti. Per chi non lo sapesse questo slum è costruito praticamente sulla discarica di Dandora, la più grande discarica di Nairobi e, forse, del Kenya. A questo punto potrei intitolare questa giornata come “la giornata delle distese immense”: la distesa di sguardi in chiesa; la distesa di montagne di rifiuti, un panorama agghiacciante. Non da consolazione neppure sapere che ci sono persone come padre Maurizio e padre Felipe che, per quanto è nelle loro possibilità, non rifiutano l’aiuto a nessuno. Hanno messo su tantissime attività diverse.
La visita ad uno dei centri per recupero degli ‘street children‘(come li chiamano loro) mi ha aperto gli occhi su quanto la situazione possa essere ancora più difficile di quella che vediamo e viviamo tutti i giorni negli slum.

Sono arrabbiata, ho anch’io tante domande:

  • Com’è possibile che il  mondo sia così disomogeneo?
  • Com’è possibile che di queste cose non si parli mai?
  • Chi dà la voce a queste persone?
  • Con quali occhi guardiamo ciò che succede?
  • Chi ha permesso tutto questo?
  • Cosa facciamo noi per fermare l’indifferenza?

Mi vengono in mente tutte le persone che prima che io partissi mi hanno detto che non sarebbe cambiato nulla. Vorrei che tutte quelle persone potessero camminare per 1 minuto dentro Korogocho, vorrei invitarle ad aprire gli occhi ed il cuore senza lasciarsi intimorire dall’ignoto, vorrei che ammettessero che, anche sembrando nulla, la nostra presenza qui è qualcosa. Noi siamo gli occhi e la voce. La speranza passa attraverso un cenno della mano. Dal pullman saluto i bambini mentre attraversiamo metri di disperazione sommersi da strati di povertà, tanto radicati che perfino le braccia più forti non riuscirebbero a spostare.

La fatica è compagna di viaggio fedele, gli occhi mai stanchi.
Credo, non so in cosa ma credo. Credo nella luce, nel bene, nelle lacrime, nei sorrisi, nelle parole sussurrate piano per spostare abitudini di violenza. Credo nella vita.
Credo nell’andare sull’altalena con Gianmarco ed un bambino cieco, credo nel baciare quella piccola fronte e stringere quelle mani, credo nel lasciare che questa piccola anima mi sfiori il viso per conoscermi e vedermi, credo nello stringerlo forte al mio cuore e sussurrargli piano le vibrazioni della mia di anima, più fortunata della sua. Lasciare le sue mani è faticoso, ma la forza sta nel conoscere ed amare, ed io amo. Amo.
Due giorni che non facciamo servizio, sento la mancanza dei bimbi di Bangladesh, delle loro risate e delle loro manine. tornando in pullman un ultimo regalo prima di tornare a casa, c’è traffico, siamo fermi davanti alla baraccopoli, ero appisolata sul finestrino quando ho sentito dal basso due pugnetti forti sul pullman ed una vocina “marghi “. Vado a letto con il sorriso, quello che mi hanno dato loro. Piena di domande, arrabbiata, ma fiduciosa. In cerca di una strada. Possiamo fare di più. Tutti noi, tutti insieme. Ritorno alle parole di sister Mary, ci credo. Tuko pamoja.

Margherita

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