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Il canto delle cicale rompe il silenzio della notte ai margini della savana africana, dopo una giornata di servizio negli slumvicini, la stanchezza si percepisce ma ha la meglio il desiderio di ascoltare e di crescere nel confronto. È una serata senza la luce della luna, il cielo non sembra terso ma, in un cerchio di esperienze, ci si racconta per capire quali siano le motivazioni che hanno portato ciascuno qui. Quasi come se questi wazungu(uomini bianchi, ndr) fossero delle vetrate che scintillano e brillano quando c’è il sole ma nell’oscurità possono rivelare la loro bellezza grazie alla luce che conservano, talvolta anche misteriosamente, in loro.

Dopo un’esperienza simile al “campo” a Nairobi, talvolta, si torna stanchi ma forse sono proprio questo affaticamento e questo senso di crisi, che portano a rinnovare il proprio “sì” al di la di ogni quotidiana confusione personale. Si torna anche per superare le proprie aspettative, semplicemente ascoltando e comprendendo, accogliendo l’altro nella sua totalità, senza ignorare piccoli e trascurabili segnali. Camminando tra le immense baraccopoli si incontrano inaspettatamente persone che non ti fanno sentire solo, volti e storie che incrociano un cammino conosciuto anche nelle più recondite periferie del mondo. È così che scopri di condividere esperienze lontane ma comuni e riesci a ricevere un inatteso conforto.

Qui c’è chi cerca di capire e percepire dove sia la propria vita mantenendo una distanza dagli incontri, una cautela, per non apparire come un imbroglio. Non si è qui per cambiare l’Africa, tanto più per cambiare una scomoda realtà. Si è qui per lavorare anche su se stessi, per essere in qualche modo messaggeri di fede davanti a una palese ingiustizia, cercando una dimensione di incontro e una relazione più profonda.

Ma c’è anche chi è partito senza aspettative particolari, forse confuso, quasi come se ogni alba mescolasse le carte in tavola e riconsegnasse un inatteso tra le mani, un qualcosa di misterioso e anche non replicabile. Di giorno in giorno questo gioco diventa un appuntamento che provoca la propria esistenza, che fa scaturire molte domande e poche risposte, ma che alimenta un percorso anche di scoperta di sé e forse anche di fede.

Parti e ti senti pronto, arrivi e ti credi ancora pronto per qualche istante ma fai due passi in più per lo slum e comprendi che di pronto non c’era e non c’è nulla. Passo dopo passo si viene provocati a cambiare il proprio sguardo, a rinnovare un “sì” ad ogni risveglio, a mettere in gioco la propria crisi personale, perché questa parte di mondo manda in crisi e la crisi va affrontata e vissuta perché senza porsi delle domande tutto questo sarebbe “turismo dei poveri”: inutile, deprecabile, ingiustificabile.

Tornare per qualcuno è “dovere” nei confronti di chi qui ha intessuto legami, anche di amicizia, nel tempo, di chi ritiene che anche solo donare “ascolto” sia fondamentale. È un “dovere” che costa fatica ma è un costo sostenibile perché in fondo ciascuno è chiamato a far sì che nell’incontro, chi si allontani, se ne vada sentendosi migliore e più felice.

Chi è alla prima esperienza, affrontata anche come sfida personale, fa i conti con una realtà dura, cruda e sconvolgente.; prende fiato partecipando a una celebrazione particolarmente “sul pezzo” ma subito soffoca nell’apprendere un punto di vista fornito da chi questo mondo lo vive in prima persona, non come assistente sociale, ma come uomo di fede. È un continuo tsunami di sensazioni e l’emotività non è controllabile. Ci si sente funamboli, in bilico su un esile filo su di una voragine… una realtà non propria che però sembra concedere una libertà eccezionale che non può non essere accolta, compresa e in qualche modo approfondita. C’è chi vivendo il confronto e il servizio in queste terre, aumenta la propria rabbia, non comprende e cerca aria e spazi per capire. Gli inputricevuti sono tanti e non è sempre facile trovare il proprio posto e cercare di portare frutti, ma emerge la consapevolezza che la fretta, di certo, non può entrare dalla porta di questa esperienza. La rabbia destabilizza. Il disagio cresce.

I più “rodati” non si sentono certamente più pronti ma realizzano che il cambio di prospettive e di abitudini è certamente fondamentale per affrontare esperienze simili. Forse è importante ricordarsi di aver cura di… non basta aver cura degli altri tanto meno solo di chi si è conosciuto nel tempo, non basta correre il rischio dei sentimenti, non è forse neppure sufficiente lasciare un impatto su chi si incontra. È importante aver cura di fare bene il bene oltre ogni comoda abitudine!

Si torna e si comprende di non aver raggiunto una meta, provocati da un vissuto non sempre lineare.

Nascono cammini con l’intento di eliminare format(e capricci) personali e brevi parentesi annuali, c’è un desiderio di contestualizzare, di essere presenza viva nelle proprie comunità vissute e animate nel quotidiano (famiglia, scuola, lavoro, amici,…), scoprendo che c’è un’isola di opportunità in mezzo ad ogni difficoltà, opportunità pronte per essere colte, trasformate in bellezza: assaporate e affrontate.

Qualcuno qui è arrivato per la prima volta, qualcun altro ha fatto qualche esperienza in più, ma chi torna non lo fa per guadagnarsi la vita o per vivere felicemente e spensieratamente in queste terre ma lo fa per imparare a porsi delle domande, per imparare a danzare sotto l’inaspettato temporale, a vivere veramente e non puramente trascorrere i giorni. Nel silenzio della notte le cicale continuano a cantare, gli occhi pesanti evidenziano l’ora tarda.

Una nuova alba attende i wazunguche nel domani avranno altre opportunità ma per comprenderle e realizzare il vero miracolo della vita dovranno lasciare che l’inatteso accada.

#tukopamoja

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