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Oggi accade qualcosa di unico

È il penultimo giorno di campo a Ongata Rongai ed il mio animo genovese si sorprende quando, sorseggiando frettolosamente il caffè, realizzo che ho ringraziato Sister Mary per lo zucchero con un “Asante sana” – grazie mille – e che ho risposto “daje tutta” al mio amico che mi ricordava che fosse l’ultimo giorno di attività nella baraccopoli di Bangladesh.

Forse qualcosa di questo campo inizia ad entrarmi dentro.

Il percorso fatto mi ha permesso di conoscere la realtà di una baraccopoli tramite il metodo più diretto, ovvero facendone esperienza, attraverso un clima di attività che hanno minato le mie sicurezze, mi hanno fatto mettere in gioco e che mi hanno mostrato una piccola, iniziale, parte, di un mondo che non conoscevo, la dimensione della missione.

In questi giorni mi sono cimentato in imprese decisamente toste, che non pensavo di essere in grado di fare: sono passato dal dare da mangiare ai bimbi disabili, al far disegnare una classe di ragazze con disturbi mentali presso le mitiche suore di Madre Teresa in Kariobangi, fino al preparare i giochi per un centinaio di bambini scatenati nello slum di Bangladesh, a Ongata Rongai.

Grazie a queste attività sono entrato in relazione con delle persone che mi hanno segnato molto e fatto capire di avere di fronte solo dei “poveracci” e non dei “poveretti”, come sottolineato dal padre comboniano Maurizio, a proposito della dignità delle persone che abbiamo incontrato, quando ci suggeriva di allontanarci da una logica di aiuto colonialista per aderire invece ad uno stile missionario che si distacca dalla necessità di autoaffermazione.

Oggi accade qualcosa di unico: due persone dello slum di Bangladesh hanno ci hanno invitato ad entrare nella loro abitazione, si tratta di un evento molto raro: insieme ad altri quattro compagni, con la mediazione di Sister Mary, facciamo visita a Bitress e Francisca.

Bitress ci accoglie con tenerezza e discrezione nella sua baracca in lamiera, all’interno della quale sono disposti a ferro di cavallo tre materassi, sui quali ci sediamo per parlare, dietro di noi dei teli appesi danno una sensazione di casa, noto che sono bianchi e non ancora impolverati, segno che la nostra visita era stata a suo modo preparata, e la cosa mi commuove. Bitress ha la mia età, 28 anni, otto gravidanze alle spalle, cinque figli che ce l’hanno fatta e vivono con lei, mentre il marito è morto di AIDS. È molto grata per l’anno passato, sono stati tutti bene, ma è preoccupata per il secondo figlio (la prima figlia è sostenuta dalla giacomogiacomo onlus), perché non ha buoni voti: il ragazzino successivamente ci passa a salutare, e viene rimproverato dalla madre per non averci salutato a dovere, così lei lo obbliga a salutarci di nuovo, e lui esegue questo gesto nuovamente rischiando di essere fulminato dallo sguardo della madre. Questa scena si è ripetuta chissà quante volte in casa mia, e le distanze continuano ad accorciarsi.

Successivamente visitiamo Francisca, che invece è una nonna vedova di quasi 60 anni e vive in una baracca insieme ai due nipotini. Per la stanza girano galline e pulcini, apprezzo il gesto del bimbo che per farmi sedere sposta il pulcino e mi indica dove sedermi. Francisca ha tre figli, due vivono da un’altra parte sempre a Nairobi, mentre l’altro è morto insieme alla moglie, erano entrambi alcolizzati. È piena di orgoglio nel raccontare come il suo ruolo di Choo Choo, nonna, sia molto rispettato all’interno della baraccopoli, per cui capita spesso che le ragazzine le chiedano consigli femminili, ma poi si oscura e ci racconta del problema dell’alcol nello slum. Francisca non ha peli sulla lingua, ci racconta come l’alcol di notte diventi protagonista dello slum, innescando insieme alla prostituzione una spirale di attività che devastano gli equilibri, già precari, tra le persone che abitano Bangladesh.

Ci congeda però con grande speranza, riferendosi agli africani più giovani, che riescono ad avere accesso all’istruzione, e che si augura riusciranno garantire un futuro migliore ai figli dei suoi nipoti.

La ringraziamo e rientriamo al dormitorio, pieni di domande sulla nostra vita, grati per queste condivisioni senza filtro.

Giacomo Bava

Ultimo giorno di servizio

Entrare in una baraccopoli è come entrare in una Chiesa.
Ultimo giorno. Ultimo giorno passato con gli ultimi di questa terra. Dopo dieci intense giornate di servizio è arrivato il momento anche per me di fare visita alle famiglie della baraccopoli di Bangladesh, luogo in cui ho svolto il servizio di animazione.
Non è mai facile camminare in una baraccopoli. I bambini, con cui passiamo la maggior parte del nostro tempo, ti prendono per mano e ti guidano su quelle “strade” nelle quali non sapresti dove mettere i piedi. Inevitabilmente il tuo sguardo è concentrato sul percorso che stai cercando di seguire, ponendo attenzione ai passi che muovi. Quando alzi lo sguardo, ti accorgi anche della presenza delle persone adulte che immagino soffrano molto più dei bambini; lo vedo nei loro occhi che riescono a comunicarti un senso di disperazione ma sopratutto di stanchezza nell’affrontare una vita che a stenti si può ritenere tale.
Io, intimorita, non riesco ad affrontare i loro sguardi, perché mi comunicano cose che non riesco a immaginare tanto che, nel rispetto di questa impressione, abbasso la testa e continuo a camminare.
Oggi insieme a tre compagni di viaggio – Eduardo, Benedetto e Roger – affronterò  quello che vedo come “oltrepassare la paura della strada” ed entrare nei luoghi dove queste persone cercano di evitare di stare il più possibile, ovvero le loro case.
Mi capita di definire queste strutture “baracche” ma devo correggermi perché per loro sono vere e proprie case, un vero e proprio rifugio. Un rifugio dalla pioggia, dal sole, dal mondo esterno che li circonda e che cercano di ignorare.
Capita che dentro le case non si riesca ad entrare a causa della piccola dimensione e per ciò ci si riunisce fuori arrangiando qualche brocca e sedia gentilmente messe a disposizione dai vicini.
Ci si inizia a conoscere, a dialogare fino al momento in cui le parole lasciano il tempo che trovano. Solitamente incontriamo solo le mamme con i loro figli che dentro la baracca sono cupi come zaffiri in penombra.
Quando i loro racconti iniziano a turbarti, mediti sull’ opportunità di far cadere il discorso, per la paura di non essere in grado di poter rispondere o di reagire nella maniera più idonea.
Nonostante ciò, oggi abbiamo incontrato donne determinate, con un grande spirito di iniziativa e voglia di imparare nuovi modi per potersi realizzare pienamente; uno di questi è il progetto INUA Mama lanciato dalla GGO due anni fa. É lodevole quanto queste donne si mettono in secondo piano pur di rendere la vita dei figli e il loro futuro migliore di quello che è il
presente in cui vivono.
Finite le visite ci siamo recati al bus delle Evangelasing sister of Mary che ci aspettava sul ciglio della strada, pronto per riportarci al compound. I saluti sono stati brevi ma intensi. Abbiamo fatto le nostre raccomandazioni ai ragazzi più grandi e loro ci hanno fatto le loro promesse, abbiamo abbracciato i più piccoli e loro ci hanno mandato i baci volanti mentre il bus iniziava ad allontanarsi.
Gabriele, una delle persone che rende questo viaggio significativo, ha ricordato a tutti i volontari: “Nel primo campo si vede, nel secondo si ascolta, nel terzo si iniziano a capire bene le cose e nel quarto si inizia veramente a fare qualcosa”. Detto ciò ci risentiremo al mio prossimo blog dell’anno 2021.
Grazie Paola, grazie Gabriele, grazie compagni di viaggio, grazie Africa.

Livia

#tukopamoja

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