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“Tenerife Sea”

Sulle note di questa canzone scrivo il mio primo angolo di blog. Oggi la pioggia è stato il nostro risveglio, una pioggia incessante e con il potere di preoccupare e scoraggiare alcuni dei miei compagni di viaggio che svolgono il servizio nello slum di Bangladesh. Nonostante ciò con una mia compagna ho avuto l’occasione di commentare “la pioggia africana”, una pioggia bella e vera, manifestazione di Dio che è in grado di far sentire impotente qualsiasi essere umano, a maggior ragione se quell’uomo si trova qui in Africa, dove il sentimento di impotenza è all’ordine del giorno.
Dirigendoci verso il bus con i k-way bagnati eravamo pronti ad andare a Kariobangi per svolgere il nostro ultimo giorno di servizio nella struttura gestita dalle suore di Madre Teresa, che la mia grande amica Margherita ha descritto perfettamente nel blog precedente.
Carichi di entusiasmo portiamo le valigie preparate la sera prima piene di materiale (dalle medicine ai giochi), ma sopratutto piene di amore. Al primo scalino del bus già intravedo il sorriso di Nixon, il nostro grandioso autista, che da sette giorni ad oggi, ogni mattina ci dà il “buongiorno” più genuino e accogliente che si possa ricevere. Oggi è una giornata molto speciale per me e per il resto del gruppo perché, oltre a svolgere il servizio mattutino, entreremo nella scuola di Saint Martin, situata nella baraccopoli di Huruma.
La giacomogiacomo ha collaborato per la ricostruzione della scuola, divenendo un vero e proprio partner, con i preti comboniani della parrocchia di Korogocho, in particolare ha collaborato con il prete comboniano Maurizio Binaghi, direttore della Saint Martin School.
La scuola di St. Martin accoglie studenti dai 5 ai 15 anni (dall’asilo alla classe 8) che sono tra i più poveri della baraccopoli, per offrire istruzione elementare a bambini e ragazzi che non potrebbero permettersi una spesa scolastica.
L’anno scorso sono entrata nella scuola di Saint Martin ancora incompleta, con le aule e gli scalini in costruzione, che salivo spinta da una forte curiosità in grado di potermi far immaginare come desiderassi quella gigantesca scuola finita. Più percorrevo i “corridoi” della scuola più i dubbi e le incertezze – che questo mondo da me molto amato è in grado di suscitare – aumentavano.
Dopo un anno sono ritornata impaziente di vedere il risultato. Ho visto una scuola bellissima. Mentre risalivo gli scalini della scuola mi sono sentita cresciuta con lei. Quest’anno, infatti, sono tornata con più certezze rispetto all’anno precedente, pronta a far entrare nuove persone nella mia vita e viceversa ma soprattutto a farmi sconvolgere dalle scoperte che questa terra senza confini e ricca di culture non cessa mai di presentare. Finalmente questa scuola è aperta per poter accogliere centinaia e centinaia di bambini pronti all’apprendimento, alla conoscenza e soprattuto all’amicizia.
Quando oggi mi aggiravo con i miei compagni per i corridoi della scuola abbiamo sbirciato e scrutato nelle classi spinti dal desiderio di capire come avviene l’insegnamento e l’apprendimento. I bambini, seduti composti tra i banchi delle luminose classi, erano buoni, composti, educati ma sopratutto cordiali nei confronti di tanti sguardi curiosi puntati su di loro. Entrare in una scuola di tale grandezza in Africa è un’ occasione più unica che rara, a maggior ragione lo è se questa scuola è stata vista a partire da uno stato di fatiscenza ad uno stato di totale completezza.
La Saint Martin è il risultato di molti sacrifici e dedizione. Dedizione di una donna che tutti noi conosciamo e seguiamo, la nostra educatrice, confidente e guida, in grado di coinvolgere tante persone nei suoi progetti per la quantità di amore che ha da condividere e che da parte nostra riceve altrettanto, la nostra cara Paola.
Nelle mie esperienze precedenti vissute nel cosiddetto “terzo mondo”, luogo degli ultimi, una frase non potrà mai abbondare la mia mente: “If you want to improve yourself you can, you have to study and you have to be free”, dunque lasciamo l’opportunità a queste persone di essere libere e di potersi realizzare poichè ogni essere umano ha il diritto di desiderare ciò e se riscontra delle difficoltà lungo questo percorso noi dobbiamo aiutarlo poiché la fratellanza e l’amore devono essere alla base dell’umanità.

Livia

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Cari compagni di campo

siete fichissimi.
Fino a 10 giorni fa non ci conoscevamo, o comunque non così bene, tranne quei due barra tre. Adesso possiamo dire di conoscerci, anche se ci sono tante cose che non vi ho ancora chiesto, mi sono limitata all’osservazione. Questo mio “ruolo” di responsabile mi ha permesso una visione più generale del gruppo, un po’ più complessiva, infatti il mio desiderio era quello che il gruppo nel complesso si vivesse in armonia il servizio. Se poi ci sono riuscita non lo so, ma di nuovo, vi ho osservati e ascoltati. Quando si rientrava in pullman dopo il servizio a Bangladesh, sembrava io mi mettessi lontana, ma in realtà monitoravo ogni vostra sillaba, è che come avete sentito e letto: I HAVE NO VOICE e quindi parlare mi faceva fatica. Anche con il gruppo di Kario, sono riuscita tra bus e lupus in fabula a carpire qualche vostra sfumatura. Lo ammetto non ci davo una lira, ma come chi mi conosce già ben sa, per me non c’è cosa più bella che ricredersi. Un gruppo che ha imparato a conoscersi, che si è saputo organizzare sulla base delle proprie capacità, che ha deciso di provarci. Siamo meravigliosamente eterogenei, e io penso che solo la diversità a contatto, unita, tuko pamoja, aggiusterà la nostra storia.

Cara amici di tutti i giorni,
ho bisogno di comunicare con voi.
Ho paura di non essere in grado di farvi capire come mi sto sentendo in questi giorni. Ho paura di non trovare le parole per raccontarvi di Jennifer, che ha la mia età, fa il mio stesso lavoro ma guadagna 2 euro per il doppio delle ore. Riprovo: nel mio attuale lavoro, per 6 ore guadagno 60 euro con contributi, ferie, assicurazione ecc., prendendo il motorino e Jennifer si fa quasi più di 7 chilometri andata e ritorno per lavorare 10 ore e guadagnare 2 euro (200 KSH). Certo questo se per quella sera fa solo la cameriera ai tavoli, altrimenti forse arriva a 5. La differenza è incalcolabile. La sua famiglia composta da 6 persone, di cui 4 bambini, mangia una volta al giorno. Dai ok, ci sta anche chi sta meglio, c’è anche la mamma di Obadia che iniziando dalla vendita di kerosene, è riuscita con il tempo e il risparmio ad aprirsi un buco nella sua baracca dove vendere 10 prodotti, un alimentari, un pizzicarolo. No. Un buco dietro una rete in ferro perché altrimenti ti rubano tutto, con il letto accanto dove riposa col marito. A sto giro è andata bene, “I am married to a good man”. Si definisce giustamente una business woman, d’altronde quest’anno ha risparmiato ben 5450 shellings, ossia circa 50€. Ripeto, io ne guadagno 60 in una sola sera. Secondo voi sono io che guadagno troppo, o ci siamo persi per strada? Dico in quanto uomini di questo mondo. C’è la necessità di capire, di parlarne, di pensarci, cacchio anche solo pensarci. Pensare che la pioggia qui è PERICOLOSA, un semplice temporale d’autunno a Roma, qui significa che la tua baracca, potrebbe essere spazzata via dalle correnti d’acqua che si formano nella cunicola struttura di una terrosa baraccopoli. Fiumi di detriti e potenza menefreghista. La pioggia non perdona manco da noi, se te la becchi in motorino, che palle, te fracichi. Qua se hai 3 anni e tua mamma è distratta, scompari, via, con la corrente. Ma senza andare troppo sul tragico, semplicemente non esci, se è notte ti stringi a tuo fratello maggiore o minore e preghi che smetta, mentre preghi che quello sconosciuto chiamato papà, smetta di picchiare la tua mamma.
Il mio intento non è quello di farvi sentire in colpa, non è quello di impressionarvi, ma quello di farvici pensare, così da rilassarvi e affrontare con solidarietà il prossimo acquazzone in motorino, invece di diventare isterici. Riusciamo addirittura a trattarci male per molto meno, perché? No davvero, ma qual è il motivo.
Bambini che VIVONO dentro la discarica, che respirano diossina H24, noi dopo un mese si muore, loro sono abituati.
Abituati, anche noi lo siamo. O no? Sappiate che a sto giro torno molto più rompipalle, pretenderò un pensiero, un’accortezza, siamo noi che dobbiamo aggiustare la nostra storia. Siamo noi, non loro, non gli altri, noi. E si fa dalle cose più piccole, si fa dal pensiero, dal cambio delle nostre abitudini, gabbia della società. Sì ma porca miseria, la chiave è nella nostra tasca. Nella tasca di ognuno.
C’è la necessità di parlarne. Di vivere a contatto con la diversità, che sia economica, sociale, di genere, e aimè politica. LEAR TO INVEST IN YOUR MIND. Pensiamoci, iniziamo da quello. Non conosco altri strumenti o mezzi se non le mie mani, le mie stanche corde vocali, e la mia mente. Pensarci fa male ve lo dico, ma tutto quello che ci fa stare bene, ci fa male a lungo andare. E comunque sono tutte cose che facciamo per stare insieme, perché parlare di queste cose non dovrebbe esserlo, perché farle insieme non può essere un pretesto. Perché?

In questo campo mi sono ammalata tanto da prendere l’antibiotico, ho un attacco di reflusso che sto sotto Lanzoprazolo, mi è venuta l’orticaria perché mi sono seduta sul prato e adesso sono anche sotto antistamicini e il campo non è ancora finito! La mia migliore amica a quattro zampe ha deciso di andarsene senza aspettarmi. Ho pagato per essere qui e non ho mai preso tante medicine tutte insieme nella mia vita, e allora perché lo chiederete voi a questo punto, ma io vi rispondo: perché no?

Alberta

#tukopamoja
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