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Scende la sera su Ongata Rongai,

i vivaci colori del giorno lasciano spazio alla brillantezza delle stelle e i muzungu (i bianchi in lingua swahili, ndr) siedono in raccoglimento sul grande tappeto in paglia nel dormitorio delle Sisters, per condividere i momenti più significativi di questa esperienza in terra d’Africa arrivata al quinto giorno. La stanchezza è tanta ma la voglia di mettersi in discussione prevale e ciascuno porta un po’ di farina all’impasto di questo campo, per poi gustarne il pane in ogni momento successivo in ciascuna delle realtà vissute. La giornata è trascorsa a est della città di Nairobi, ai margini dell’enorme discarica di Dandora, luogo di residenza e di lavoro di molti, luogo di criminalità e dall’aria irrespirabile per la vicinissima, immensa, baraccopoli. Il blog di questa sera è un insieme di colori, di risonanze, di pensieri raccolti in una fascina di sapori nuovi, non sempre facili da gustare ma… ci piace così.

Un’emozione forte entrando nella gremita chiesa di Kariobangi, dal sapore di un vissuto adolescenziale “dove ho accolto un neonato tra le mie braccia” rimanendo provocato dall’esistenza di questo piccolo uomo, per la propria futura esistenza. Difficile trattenere le lacrime nel fare un bilancio del proprio passato, ma nel presente di questo campo è bello essere consapevoli ed emozionati su un piatto della bilancia, contrastato allo stesso tempo dall’altro piatto pieno di ambizioni. Ora ci si sente tesi a bilanciare emozioni e vissuto.

Sarebbe stato meglio prepararsi per fare meno fatica, perché l’assenza di punti di riferimento e le novità, anche di chi non è neofita ad esperienza simili, bussano alla porta troppo spesso in veste di difficoltà nelle intense giornate in terra d’Africa. Oggi le provocazioni pungenti, dirette, solo all’apparenza “antipatiche” di padre Maurizio sul senso della missione e del campo stesso, hanno colpito nel profondo. Un missionario comboniano che racconta quanto un’esperienza simile non debba essere finalizzata a “salvare i poveri” (è quello che vogliono? Qualcuno lo ha loro chiesto?) ma debba essere una tappa di un cammino atta a farti tornare a casa con più domande, magari arrabbiati, in crisi ma sicuramente trasformati… smuovendo la propria esistenza, in qualità di “cercatori di felicità” perché Dio ci vuole felici! Lontani dai propri luoghi di origine ci si sente improvvisamente meglio, fuori dalle frenetiche tempistiche del “primo mondo”, talvolta impauriti nel ritorno e nell’assenza di punti di riferimento passati. Ma c’è sorpresa e meraviglia nel poter collaborare con nuove conoscenze.

L’intenzione di alcuni è quella di permettere ai visi dei bambini di raccontare una vita, di leggere una precisa identità che manca in questi luoghi. Non è facile, spesso è una sofferenza, ma cosa fare per garantire la felicità a questi piccoli uomini? Basta portarli in una realtà più ricca o è necessario manifestare un desiderio di vita che non sia solo materiale?

La chiesa di Kariobangi è stata testimonianza di speranza nel futuro grazie alla presenza massiccia dei bambini nati nella baraccopoli non certo in condizioni umanamente facili.

Anche l’incontro con la disabilità è disarmante ma nello stesso tempo il prendersi cura del fratello disabile è meravigliosamente nuovo, sconvolgente…

La stanchezza è spesso un insieme di pensieri, di relazioni difficili vissute alle origini ma sembra che nella quotidianità africana tutto si superi o comunque venga affrontato con una diversa consapevolezza, con meno pigrizia, con meno egoismo e con uno slancio necessario e voluto. Ciò porta sicuramente a un cambiamento e non sempre si è sempre disposti ad accettare. Ma ci si lascia trasportare dai segni, ogni giorno, dai rapporti umani instaurati, dalle assenze che si fanno presenza viva, attenzione, cura dell’altro. Regna la confusione nei cuori (e nelle teste) di molti e qualcuno teme di non riuscire a gestire le emozioni per farne tesoro successivamente. Sono paure condivise. Ossa rotte dalle troppe contraddizioni di questi luoghi. Ma non è ciò che padre Maurizio ha provocatoriamente predetto?

La paura che prevale per qualcuno, è rabbia per altri. L’immagine focalizzata nella giornata di oggi, di tre bimbe, di non più di 5 anni al lavoro nella discarica di Dandora, nello slum di Korococho, nel lezzo e nella miseria di uno dei posti più ricchi di criminalità e di disperazione dell’intero continente africano, incentiva una rabbia senza misura, perché incapaci di giustificare e comprendere. Squadre di bambini, con la loro divisa colorata e le loro scarpe sportive (anche diverse tra loro) che giocano ai margini della discarica nella nube mortale della diossina sprigionata dall’autocombustione dei rifiuti. Un’amica che vive in una baracca che ti accoglie mentre tre uomini ubriachi contemporaneamente ne escono. Ogni nuova esperienza in queste terre rende meno comprensibile una realtà assurda.

Ma è necessario tornare sulla montagna (con i partigiani!)! In Italia, nelle nostre comunità, nelle nostre realtà… ciascuno qui fa la sua parte secondo le proprie potenzialità e il proprio carisma (le Sorelle della Carità, i Padri Comboniani, le Evangelizing Sisters, i social worker), qui c’è una resistenza di chi ha Dio nell’anima. Noi siamo troppo pieni di parentesi, assorbiti da un giro qualunquista, non sempre pronti a “proseguire” nei nostri luoghi di origine. Dobbiamo fidarci e affidarci, con le nostre debolezze e i nostri pezzettini che non sempre combaciano ma vanno considerati e apprezzati.

Il ritmo conciliante del matatu (i mezzi pubblici stracolmi) per le strade e gli slum di Nairobi è scandito dalla speranza e dalla consapevolezza di poter essere piccoli granelli di sale per queste terre mantenendo nelle narici il ricordo dell’odore acre di Dandora e nel cuore quell’arrabbiatura necessaria per far nascere un’umanità nuova. E ora il silenzio della notte avvolge i muzungu, un silenzio per mettere ordine, interiorizzare e trovare nuove strade di pace per ogni singola esistenza incontrata e abbracciata, riscoprendo quell’immenso desiderio di essere amati.

 

#tukopamoja
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